Silvia Cini fin dai primi anni ‘90 agisce attraverso pratiche di arte partecipata e focalizza il suo interesse sul paesaggio come metafora sociale, integrando arte e botanica. Avant que nature meure è il risultato di una ricerca iniziata nel 2015 sulla fioritura odierna delle orchidee spontanee nel contesto urbano, quali bioindicatori della salute delle città.
Il titolo è la citazione del testo del 1965 dello scienziato francese Jean Dorst, tra i padri della tutela per l’ambiente insieme a Rachel Carson, un allarme sull’estinzione della biodiversità ed un invito alla riconciliazione dell’essere umano con la natura. Partendo da questi principi, l’artista sta compiendo una mappatura sistematica delle orchidee spontanee a Roma, basata sugli acquerelli dal vero di queste, ognuno recante l’indicazione del luogo di fioritura, allora piena campagna ed oggi grandi quartieri metropolitani, realizzati dal pittore Enrico Coleman tra il 1893 e il 1910, conservati, insieme al suo prezioso erbario, all’Istituto Centrale per la Grafica, dove le due opere andranno a riunirsi terminato il progetto. Grazie a questa preziosa testimonianza della biodiversità di una Roma passata, Silvia Cini ritrova nelle aree urbanizzate e sempre più antropizzate della Roma contemporanea le orchidee spontanee da lui rappresentate, con il fine ultimo di interagire con enti e tecnici affinché siano modificate le tempistiche di sfalcio, contribuendo alla tutela delle varietà ancora esistenti.
Il progetto si sviluppa in diverse fasi, online, on life e offline:
• realizzazione di una piattaforma digitale in progress che fornirà una mappa indicativa dei luoghi di fioritura delle orchidee spontanee a Roma realizzata in collaborazione la Facoltà di Scienze Ambientali dell’Università della Sapienza di Roma e conterrà testi, immagini, video, podcast, contributi di botanici, urbanisti, artisti e sociologi.
• Attivazione di una open call in cui cittadini e city users saranno invitati a caricare sulla piattaforma foto di orchidee incontrate in città, potenziando in modo esponenziale le osservazioni sul campo e contribuendo a creare una coscienza collettiva.
• Dérive nel verde, attualizzando le tecniche di rilievo psicogeografico di Guy Debord, coinvolgeranno piccoli gruppi di pubblico in cammino nel super organismo della metropoli alla ricerca di orchidee, pratica ventennale del camminare come atto di conoscenza a misura d’uomo ed introspezione del continuo stratificarsi urbano, che l’artista ha messo in atto in varie città con il work in progress I custodi di Orchidee.
• Mostre, eventi, incontri, saranno realizzati in collaborazione con realtà che si occupano di arte e natura come: CareOf, Fondazione Lac o Le Mon, Hellenic Society for the Protection of Nature, Hungarian Garden Heritage Foundation, Kunstraum München – En plein air, MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna, Museu da Amazonia, PAV Parco Arte Vivente, saranno raccolti nel catalogo curato da Alessandra Pioselli.
Avant que nature meure si concluderà a Roma a Giugno 2024, con una mostra negli spazi del Museo Orto Botanico dell’Università “La Sapienza” ed ha avuto un primo evento espositivo internazionale all’ELTE Botanical Garden di Budapest, tra i più interessanti orti botanici d’Europa.
Il messaggio della natura non ha confini, rigetta ogni definizione, portando l’uomo, sua infinitesima parte, ad una costante rivalutazione delle proprie certezze. Così ciò che rifiorisce in Roma, ci porta ad osservare la straordinaria resilienza della natura, dell’ambiente inteso non come mero bene, ma “nella sua accezione più estesa e ‘sistemica’: quale ambiente, ecosistema, biodiversità”. (link)
Aprendo la ricerca a infiniti sviluppi interdisciplinari, l’artista solleva questioni quali l’impatto dell’urbanizzazione sul paesaggio, l’importanza della conservazione della biodiversità e l’urgenza di prendersi cura dell’ambiente, coniugando il fare artistico con il terzo comma dell’art.9 della Costituzione italiana introdotto nel 2022 che “tutela l’ambiente, la biodiversità, e gli ecosistemi anche nell’interesse delle future generazioni.” Tematiche attuali, trasferibili ad altre città, paesaggi, territori e contesti. Il progetto nasce quindi a Roma per la sua peculiarità, ma questo è una metafora della resilienza della natura rispetto alla sempre crescente antropizzazione del paesaggio. Se consideriamo le metropoli contemporanee non solo come semplici città, ma come superorganismi, dove uomini, animali e piante interagiscono con il tessuto urbano adattandovisi e modificandolo costantemente attraverso un continuo processo di implementazione, ci rendiamo conto che involontariamente agiscono tutti insieme, come un un’unica entità, un superorganismo per l’appunto.
Quello che manca allo stato attuale e che sta piano piano crescendo nella coscienza comune è che, perché ogni organismo continui a vivere in salute, è necessaria una maggiore cooperazione nella tutela globale dell’ambiente. Dobbiamo compiere molti passi verso la cooperazione con gli altri regni, raggiungere quella eusocialità in senso ampio di cui Edward O. Wilson, ci parla dagli anni Sessanta.
Per questo l’evento espositivo in Ungheria al Füvészkert ELTE Botanical Garden Budapest ha mosso i suoi passi cercando in primis una ricaduta nel quotidiano dei più giovani, realizzando due workshop in collaborazione con l’Hungarian Garden Heritage Foundation e l’Istituto di Cultura Italiana a Budapest presso il Petöfi Iroladami Mùzeum e nei suoi splendidi Giardini Kàrolyi, che hanno coinvolto sia studenti alla fine del ciclo di studi superiori, che bambini in età scolare e prescolare.
Il primo incontro è stato realizzato in collaborazione con gli insegnati, portando gli studenti a conoscenza delle specie di orchidee spontanee e dei dati sulla fioritura attuale a Budapest forniti tramite Füvészkert, Orto Botanico e un’unità educativa speciale dell’Università Eötvös Loránd di Budapest, dal botanico e ambientalista Bájor Zoltan. Gli studenti sono stati invitati a diventare parte attiva nella raccolta dei dati, implementandoli con le foto raccolte con i loro telefoni cellulari durante i percorsi quotidiani in città, rendendoli al contempo consapevoli e primi custodi di orchidee.
Per i più piccoli il workshop si è concentrato sull’osservazione diretta della natura. Natura buffa, gioiosa e giocosa quella delle orchidee spontanee geofite, dove le forme dei fiori, zoomorfe e antropomorfe, ricordano fate e allegri folletti che si nascondono ai bordi delle strade, come al margine di parchi e prati. L’artista ha realizzato Wunderkammer – City Playground un grande gioco in legno composto da molteplici tessere ognuna con l’immagine e la tassonomia delle 31 orchidee diffuse in Ungheria ed in particolare con le specie selvatiche a rischio che si trovano ancora nella città di Budapest. Un memory, attraverso il quale i bambini, saltando ogni forma di mediazione didattico-linguistica e utilizzando le dinamiche di gioco, hanno velocemente imparato a conoscere e riconoscere questo fiore memorizzando nomi e forme. Un gioco metropolitano, fatto di nomi scientifici, che diventano parole giocate e immagini memorizzate da cercare nel tempo vivendo la propria città.
Per le sale espositive dell’ELTE Botanical Garden, Avant que nature meure, ha assunto la forma di progetto site specific, un itinerario tra installazioni audio ambientali, sculture, ricami su camici da laboratorio di orchidee che si riallacciano alla tradizione Matyò, foto, dati e performance.
“A Budapest non ho voluto semplicemente trasportare la mostra di Roma, inserendomi forzosamente in un altro contesto, ho creato le condizioni per poter realizzare un lavoro specifico, trovando una prospettiva nella realizzazione delle opere che si riallacci in modo stretto alla cultura ungherese.”
Il ricamo della “rosa Matyò”, è da secoli opera di donne deputate al crearne le varianti da un disegno base. Questa forma di restituzione del paesaggio del popolo Matyò, che come molti altri è stato progressivamente assorbito dal processo di creazione delle identità nazionali, tutelandone e al contempo standardizzandone la cultura in funzione anche turistica ed economica è – nella visione dell’artista – alla stregua di un campo che, dalla condizione di essere libero di germinare la propria biodiversità, diventa verde e sfalciato prato omologo.
Narra la leggenda che il ricamo Matyò nasca per ricongiungere una coppia di futuri sposi. Una forza negativa, rapì il ragazzo chiedendo come riscatto un grembiule colmo di fiori in pieno inverno. La ragazza, per riaverlo, riempì effettivamente il grembiule di fiori, ma ricamandoli. La leggenda edulcora il lungo lavoro tutto al femminile del corredo, simbolo di una donna legata a un ménage quotidiano elitario e patriarcale. Silvia Cini trasforma il ricamo tradizionale della rosa in orchidee, quelle che fioriscono oggi negli spazi interstiziali di incolto, riportandole sui camici che le biologhe indossano nell’Orto Botanico di Budapest. Luogo dove quotidianamente viene “ricamato in vitro” un corredo per la tutela e la salvaguardia interspecie.
Ispirata dal salone ottocentesco e dalla ex ballroom del Kastély, l’antico castello sede espositiva nel cuore dell’Orto Botanico di Budapest, la videoperformance Matyò fonde i passi della danza tradizionale Matyò e della danza contemporanea con le immagini di reportage etnografici anni Venti del popolo Matyò.
Le antiche teche negli ambienti del Kastély, sormontate dal succedersi degli austeri ritratti dei passati direttori, si sono animate, ospitando in certi casi lo scandire dei passi di danza, o l’insieme di antichi erbari, sculture galvanoplastiche, foto sul campo di fioriture urbane, mappature, dati, fino ad illuminarsi trasformandosi in lightbox dove si succedono le immagini delle orchidee censite.
L’installazione audio ambientale, filo conduttore della mostra, narra in italiano, inglese ed ungherese la storia dell’incontro a distanza di più di un secolo tra le opere dei due artisti, entrambi affascinati da un mondo microscopico e nascosto. Silvia Cini trascende dall’idea esotica dell’orchidea e valorizza la metafora sociale di queste straordinarie piante, dette in Botanica specie carismatiche, che compiono il loro ciclo vitale solo nella possibilità di essere in simbiosi con altri viventi. Le orchidee geofite dei climi temperati, che possono vivere solo grazie al rapporto simbiotico con le ife di funghi contenuti nel sottosuolo, sono metafora della relazione tra il visibile e il non visibile dei rapporti di cooperazione che portano alla convivenza. Mentre le orchidee tropicali epifite, che si appoggiano alla corteccia degli alberi, non per parassitarli succhiandone la linfa, ma anzi “abbracciandoli”, evocano l’allegoria di tutte queste straordinarie piante, che compiono il loro ciclo vitale solo nella possibilità di essere in simbiosi con altri viventi.
Ricercando le tecniche coeve a Coleman di stabilizzazione delle specie botaniche, Silvia Cini ha realizzato piccole sculture di orchidee spontanee, riportando in uso il processo di galvanoplastica, tecnica ereditata da affascianti musei di storia naturale mittel europei. Ognuna segna il luogo di una fioritura in città, il prototipo di un segnasfalcio che va ad indicare dove non intervenire e lasciare che sbocci quel che la terra nasconde. Scultura che nasce dalla materia viva e torna alla terra per preservarla, per raggiungere l’obiettivo di una ricaduta reale nella regolazione dei tempi di sfalcio portando, si spera, come già avvenuto in un’area del pieno centro storico di Roma ad un rifiorire protetto e rigoglioso.
Per Care Of, Silvia Cini ha creato Spontanee un momento di incontro a porte chiuse tra soli artisti: Stefano Boccalini, Pasquale Campanella, Gea Casolaro, Claudia Losi, Emilio Fantin e Leone Contini e Stefano Cagol. Le conversazioni spontanee che scaturiranno dall’incontro saranno documentate da Mario Gorni per l’archivio video, come testimonianza di una riflessione collettiva e orizzontale di una generazione di artisti che si confrontano su temi a tutti loro affini cercando un linguaggio in nuce che parta dalle rispettive opere.
Nell’intervento previsto in Germania per il progetto En plein Air, a cura di Emily Barsi tra i curatori di Kunstraum München, Silvia Cini, affiancata da esperti botanici, ricreerà in una zona urbana rinselvatichita l’intervento Estranee, mappatura sistematica della flora sintropica.
Il luogo dell’intervento di Silvia Cini è uno spazio non addomesticato. In una porzione di bosco, l’artista identifica e marca con dei cartellini segnaletici tutte le piante non autoctone con valore di metafora dei percorsi di migrazione e adattamento. Scrive Glissant: “chiamo una lingua creola quella in cui elementi costitutivi sono eterogenei tra loro”. “I creoli provengono dallo scontro, dalla consunzione, dal consumo reciproco di elementi che all’inizio sono del tutto eterogenei fra loro, con un risultato imprevedibile” ed è qualcosa di nuovo, ma non si può dire che sia un’operazione originale, perché, riportando il discorso agli idiomi, “quasi ogni lingua è in origine una lingua creola” (Glissant, 1998). Silvia Cini osserva il bosco, considerandolo un habitat ibridato. Se le piante seguono le strade imprevedibili della migrazione, della mutazione e dell’adeguamento all’ambiente, come separare le specie vegetali autoctone da quelle alloctone? Avendo ogni specie una precisa area di diffusione geografica, la certezza delle scienze naturali e biologiche considera autoctone quelle che vivono nella zona in cui hanno avuto origine e si sono evolute. Alloctona, invece, è la specie che si è adattata a vivere in un ambiente che non è originariamente il suo. Il paesaggio antropizzato è caratterizzato da una flora migrante da altre aree geografiche fin dall’antichità, assunta a segno identitario tale da ritenersi autoctona nella percezione collettiva. Nel tratto di boscaglia preso in esame dall’artista, acacie e robinie sono aliene, ma non estranee. Richiamando i concetti di indigeno e di originario, il termine autoctono è altrettanto scivoloso. L’operazione di Silvia Cini chiama in causa le valutazioni culturali in base alle quali i criteri di classificazione sono stabiliti, ricordando che la categorizzazione è una pratica problematica e le etichette sottopongono l’oggetto alla disciplina di un discorso, per richiamare Michel Foucault. Il bosco che piace pensare creolo lo è nel senso non pacificato di una parola che conduce dentro di sé il senso della lotta e della frattura di cui parla Glissant, pure ricomposta in unità. Accade che le specie alloctone entrino in competizione con le indigene e che l’adattamento sia fatto di vittorie, resistenze, perdite, compromessi. Il bosco è metafora di una lingua che continuamente si riconfigura assorbendo elementi eterogenei la cui origine non è più distinguibile perché confluenti in un nuovo parlato. Il gesto catalogatorio di Silvia Cini porta a distinguere le radici, ma per smascherare i concetti. Il bosco incolto non è più lo spazio dell’altro da sé, dell’alieno, la selva contrapposta alla civiltà. È, piuttosto, uno spazio meticcio.
Con il lavoro Estranee (2013), l’artista riprende le fila del discorso iniziato nella seconda metà degli anni Novanta con le opere Microcosmi microclimi e Terre di riporto (entrambe del 1998).
Testo di Alessandra Pioselli
PAV, Parco Arte Vivente ospiterà l’insieme di un talk ed un workshop.
Il Talk Avant que nature meure avrà luogo Venerdì 12 aprile alle ore 18.30 al PAV di Torino ed accoglierà il contributo di Lucilla Barchetta (antropologa e dottoressa di ricerca in Studi urbani), Michele Cerruti But (professore a contratto di urbanistica al Politecnico di Torino) e Laura Guglielmone (curatrice dell’Erbario dell’Università degli Studi di Torino). Sarà introdotto da Orietta Brombin (curatrice AEF-PAV) e moderato da Alessandra Pioselli (curatrice del catalogo e dei talk del progetto), in dialogo con l’artista Silvia Cini. L’incontro si svolge attorno al mondo vegetale spontaneo come forma di memoria e archeologia urbana, attraverso cui cogliere il divenire della città e le sue articolate e non lineari temporalità. Assumere i modi di vita e il tempo dei vegetali significa ridefinire le narrazioni dell’urbano e costruire una memoria interspecie. Così l’urbanistica è chiamata a ripensare i paradigmi con cui guardare la città come comunità ecologica che si delinea nell’interdipendenza tra soggetti umani e non umani, gli erbari storici diventano dispositivi per leggere tali coesistenze in territori mutanti, mentre lo “spontaneo” è una figura interpretativa per cogliere la vitalità dei bordi non addomesticati.
Sabato 13 Aprile dalle 10:00 alle 16.00, nella sede del PAV, l’artista si relazionerà con il pubblico nel realizzare il workshop: Storie più che umane
Avvalendosi della collaborazione con la Facoltà di Scienze Ambientali di Sapienza Università di Roma, l’artista è entrata in contatto con l’Erbario dell’Università di Torino per accedere ai fogli di censimento, alle schede e da queste, partendo dalla fine Settecento, ricostruire i luoghi di fioritura nella città passata, creando un inventario della memoria del naturale urbano da implementare attraverso il vissuto dei partecipanti al workshop.
La città e la sua storia non sono più percepite attraverso una visione antropocentrica come un’area popolata nel cui spazio quotidiano la natura non entra a far parte, ma come un superorganismo interconnesso tra più sistemi che si completano a vicenda e di cui l’uomo è parte integrante e non superiore, partecipe di una storia più che umana: una storia ecocentrica.
Attraverso la memoria dei partecipanti, l’artista individuerà i luoghi in cui posizionare le sculture di piante, che saranno prodotte insieme durante il workshop, selezionando gli ex areali di fioritura, dove la vegetazione è ormai scomparsa, metafora dei rapporti interpersonali e sociali. Le sculture saranno modellate in creta cruda, materiale sospeso, reso fragile dalla volontà di non garantirgli durata tramite la cottura, ma che anzi rifugge l’eternità e si cristallizza nel tempo dell’impermanenza, nella casualità della prima pioggia che lo riporterà ad essere semplice terra. Piccoli monumenti anticelebrativi di una memoria rimossa e dimenticata, posti come dubbi, stimoli per una riflessione che disperde l’idea del messaggio certo ed eterno a favore di un divenire. Questo disperdere e divenire è rappresentato, nella pratica dell’artista, dall’argilla cruda: roccia morbida che si lascia plasmare e assume la funzione narrante di memoria botanica, senza imporsi, ma decomponendosi all’atto stesso di essere posta in memoria e diventando substrato, come sua natura.
Per MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna, Giovedì 28 Marzo – 18.30 verrà realizzato il talk di presentazione del progetto: La botanica sociale di Silvia Cini, tra pratica artistica ed environmental humanities.
Silvia Cini sarà in dialogo con Umberto Mossetti curatore Orto Botanico ed Erbario | Sistema Museale di Ateneo – Università di Bologna e Riccardo Venturi, critico e storico dell’arte, docente presso École des Arts de la Sorbonne. Modera l’incontro Alessandra Pioselli, curatrice del libro e dei talk del progetto, lo introduce Lorenzo Balbi direttore di MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna.
Silvia Cini pone come centro della propria pratica artistica l’ecosistema, prendendone in analisi specifici elementi e compiendo una trasposizione simbolica nei rapporti interpersonali e sociali, come per la simbiosi tra orchidee e ife dei funghi, che diviene metafora del mutuo appoggio. L’agire artistico diviene indagine botanica e geologica, studio del terreno, della pietra, delle argille, dando voce a una storia plurale e non solo umana, ma interspecie, fatta di tempo, rovine, memoria dello spontaneo e del selvatico.
Il lavoro di ricerca e mappatura delle orchidee spontanee che crescono nelle aree metropolitane costituisce il centro generativo di questo progetto di Silvia Cini – che ha avuto la sua prima tappa espositiva all’ELTE Botanical Garden di Budapest – e diviene la chiave per approfondire con i partecipanti al talk alcune questioni emergenti: le implicazioni della rilettura dal punto di vista botanico dei contesti urbani e dell’antropizzazione del paesaggio, nonché degli immaginari che germinano attorno alla flora selvatica negli intrecci tra arte contemporanea e rappresentazioni scientifiche.
La comparazione tra orchidee europee geofite – che affondano le loro radici nel terreno – e orchidee tropicali epifite – che si appoggiano alla corteccia degli alberi senza succhiarne la linfa come parassiti, ma “abbracciandoli” – sarà il punto di inizio per evocare la metafora di
queste straordinarie piante, che compiono il loro ciclo vitale solo se nella possibilità di essere in simbiosi con altri viventi. Allo stesso modo le orchidee europee possono vivere solo attraverso il rapporto simbiotico con determinati funghi contenuti nel terreno, sottolineando la relazione tra il visibile e il non visibile dei rapporti di cooperazione che portano alla convivenza. Sotto altri aspetti le orchidee tropicali coltivate vengono comunemente vendute costrette dentro a dei vasi, per riprodurre lo standard visivo a cui il grande pubblico è abituato. Questo è uno degli infiniti spunti per riflettere sul retaggio di una mentalità coloniale tanto radicata da portare a non riconoscere la bellezza di ciò che non siamo abituati a vedere.
Come spiega l’artista: “C’è chi cerca orchidee spontanee, io le incontro e nell’incontrarle il fascino di queste minuscole piante capaci di riprodurre la forma, il colore e l’odore di un animale a loro legato per l’impollinazione e del quale mimano la femmina pochi giorni prima che questa entri in calore, mi ha distratto dal rumore del mondo. Perché́ in loro, il messaggio silenzioso della natura, direi l’urlo silenzioso della natura si cristallizza in forma e questa che io percepisco talvolta zoomorfa altre antropomorfa, mi lascia inerme a cercare risposte sul dialogo interrotto tra regni.”
Biografia
Silvia Cini è un artista e curatore, le sue opere vivono del dialogo, spesso personale, che crea con il pubblico. Il suo interesse si focalizza frequentemente sul paesaggio, come metafora sociale, integrando installazioni audio ambientali e ricerca botanica. Giovanissima, è tra i fondatori del Gruppo Immagini, collabora con Keith Haring alla realizzazione dell’evento che porterà al murale di Pisa. Nel 1994 crea a Milano con Salvatore Falci il gruppo AAVV, collabora con Cesare Pietroiusti per DisorsordinAzioni, il Gioco del Senso e Non senso (XII Quadriennale di Roma) e il Gruppo Oreste con il quale parteciperà alla 48^ Biennale di Venezia. Nel 1997 cura la serie di mostre Frame al Ferro di Cavallo in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Roma, promuovendo gli albori dell’arte di relazione e dell’arte pubblica in Italia. Collabora con Carolyn Christov Bakargiev e Hans Hulrich Obrist all’Acàdèmie de France à Rome per la realizzazione della mostra La Ville, Le Jardin, La Memorie. Svolge negli anni l’attività curatoriale, (Invideo per la Triennale di Milano, Icityperiferiche, Palazzo Re Enzo Bologna, Loggia della Mercanzia Genova, Cartabianca, Museo d’Arte Contemporanea Villa Croce Genova, Cantieri Culturali della Zisa, Palermo), affiancandole quella espositiva. Ha collaborato dalla fine degli anni Novanta con la Galleria Neon, alternando mostre personali e collettive (Galleria Continua, Zero, GoldanKauf) in Italia e all’estero. Ha collaborato con la Facoltà di Architettura del Paesaggio di Genova tenendo workshop su arte e paesaggio. Nel 2000 riceve da Fabio Mauri, alla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Roma, ora MACRO, il premio Atelier. La città di Genova, in occasione di Genova 2004 Capitale Europea della Cultura, le assegna, tramite il Museo Villa Croce, il Premio Duchessa Galliera. Nel 2022 è tra i vincitori dell’Undicesima edizione dell’Italian Council AMBITO 1.